I
tormenti del pacco capitalista:
Amazon,
mail a vuoto e cinesi..
Il
capitalismo sostiene che tu abbia ricevuto un prodotto che hai
ordinato online,
ma
tu non l’hai ricevuto.
Lo
splendido e oliato meccanismo del consumo digitalmente mediato
(desiderio-pagamento smaterializzato-attesa-possesso) s’è
inceppato.
Che
fai?
Scrivi
una mail al capitalismo (per modo di dire: in realtà compili un form
sul suo sito, form che è stato concepito per scoraggiarti, ovvero
per disincentivare i reclami.
Un
menu a tendina ti indirizza verso il tuo caso particolare secondo un
imbuto che prevede diverse possibilità:
articolo
difettoso, arrivato in ritardo, trovato a un prezzo più vantaggioso…
Per
selezionare “prodotto non consegnato ” devi discriminare,
discernere,
cioè pensare:
(che
è proprio ciò che ti si vorrebbe impedire di fare rendendotelo difficile).
In
questo caso il capitalismo
è Amazon,
il cui padrone è quel Jeff Bezos (patrimonio stimato 205 miliardi di
dollari) che a luglio 2021 ha fatto un giro di 4 minuti nello spazio
nella sua
navicella Blue Origin.
Mi
scrive da un ufficio globalizzato una certa Veronica:
“Dopo
aver effettuato una verifica ”, è l’incipit di una mail
lunghissima,
“ti informo che l’ordine per cui ci hai contattati
è
venduto sul nostro sito da un venditore di terze parti.
Ti
spiego Daniela
(nome
della malcapitata che ha acquistato prodotti mai consegnati),
Amazon
in questi casi è solo una vetrina per questi negozi.
Il
venditore è l’unico responsabile per la vendita e la spedizione
dei propri prodotti…è la persona migliore per rispondere alle tue
richieste in maniera veloce ed esaustiva”.
Veronica,
impiegata della multinazionale, mi sta scaricando.
Il
venditore, rispondo piccata a Veronica,
è quello che sostiene di avermi
consegnato un articolo
che non mi ha consegnato ergo non
mi pare il soggetto più affidabile per dirimere la questione.
Ma
la casella di Veronica
è no-reply, non accetta mail in entrata.
Per
parlare col capitalismo devo ricompilare il form sul sito.
Un
messaggio mi informa che non posso fare un reclamo se prima non
contatto il venditore, che –apprendo
–
è un’azienda privata ubicata
a Shenzhen, Cina.
Procedo.
Esso,
nella persona di Agata,
mi risponde dopo un po’ confermando che il
prodotto è stato consegnato:
“Risulta”.
A
chi? C’è un’istanza superiore a me in grado di verificare
l’effettuata consegna, che a me è sfuggita?
Metto
in dubbio la consistenza epistemologica della mia convinzione:
davvero
non l’ho ricevuto?
Non
potrebbe darsi che io lo abbia ritirato con le mie mani da qualche
corriere
insieme ad altra corrispondenza e lo abbia inavvertitamente buttato?
Ricompilo
il form, assicurando la mancata consegna.
Il
venditore risponde (sulla mia mail: il nostro rapporto è totalmente asimmetrico)
che
devo controllare presso i vicini di casa oppure all’ufficio
postale.
Valuto
l’ipotesi.
Sorge
in me un dilemma etico:
è
giusto far pagare a questo povero venditore, con quello che ha passato
la Cina nell’ultimo anno e mezzo, il costo di un prodotto che giace
presso il mio ufficio postale, solo perché a me non va di andare a
ritirarlo?
Dura
un istante.
Mi
si attiva il logo
s:
posto che l’azienda
è presumibilmente una scatola
dentro infinite scatole societarie, facendo l’ordine io non mi sono
avvalsa di uno sconto con la promessa che sarei andata a ritirarlo
alle poste.
Devo
lavorare per loro?
Fatto
sta che io in mano non ho nulla, mentre loro hanno i miei soldi (mi
fanno intendere, con questa sottovalutazione del mio caso, che sono
davvero pochi spiccioli: allora perché non me li ridanno?).
Faccio
un po’ di manovre confuse e allora mi telefona Amazon nella
persona di Pasquale,
da telefono ubicato in Uxbridge, Regno
Unito.
È
gentilissimo, addestrato a mandarla per le lunghe (io ho fretta, ho
altri pensieri: su
questo contano, sul predominio della vita, a un certo punto, sopra la
tigna e il tenere il punto del cliente; contano sul logoramento
psicofisico), il quale mi spiega che è semplicissimo:
bisogna
attendere che il venditore risponda, ma devo dargli 48 ore; al che il
residuo logo
s mi
impone di chiedere:
e
se non risponde? Pasquale,
semplicemente sbigottito, nondimeno replica assertivamente che devo
aspettare fino alla scadenza del termine massimo dei tempi di
spedizione,
che il venditore ha previsto
lunghissimi apposta, di modo che (ma questa è una mia congettura)
nel frattempo il cliente si dimentica o sperabilmente muore, e quand
’è così non che i parenti si mettono a esigere tutti gli ordini
non ricevuti in vita dal defunto.
La
questione comincia a farsi gravosa, politica:
magari
il corriere è passato, ha suonato, ma io ero sotto la doccia e non
ho sentito, e lui, poveraccio, ha scritto che aveva consegnato qualcosa
che non ha consegnato, cosa strana perché i corrieri
di Amazon mandano una mail pochi secondi dopo aver consegnato un
pacco, e così per ognuna delle 200, 300 consegne che fanno al
giorno, per 9 ore al giorno, per 6 giorni alla settimana, scendendo e
salendo sul furgone centinaia di volte, urinando nelle bottiglie per
non perdere un secondo; se consegnano poca merce, vengono
puniti;
se ne consegnano troppa, il giorno dopo ne avranno di
più nel furgone perché l’algoritmo ha stabilito che sono in grado
di farlo.
Bezos
paga zero dollari di tasse negli Usa e in Europa ne paga pochissime
perché le imposte sono sui profitti e non sui ricavi (basta
investire molto);
io
e i suoi corrieri lavoriamo tutto il giorno per lui, per risolvere
questo che tecnicamente è un furto ai miei danni perpetrato da
“terze parti”.
Lascia
stare, mi consigliano amici e parenti, e in effetti mi converrebbe,
ho già perso tre giorni, nei momenti meno opportuni mi arrivano
telefonate dall’Albania
o dall’Irlanda
a cui rispondo sottoponendomi a una litania di premesse (“Stai
lavorando?”: il capitalismo ti dà del tu perché ti ama).
“Ti
avviso che la chiamata potrebbe essere registrata”:
potrebbe?
Cosa
ho fatto di male?
È
chiaro che non si fidano di me e sperano che cada in contraddizione.
Scrive
il venditore,
ribadendo
che devo “controllare:
1
Casella postale domestica
2.
Area d’ingresso
3
Dietro il prato
4.
Vicinato”.
Ricontatto
Amazon,
furente (quanto costano i miei sentimenti?), soprattutto
perché non ho un prato.
Francesco
mi telefona da Tallaght,
Dublino, è
dispiaciutissimo, si scusa a nome del capitalismo e dice che Amazon
mi rimborserà (che
avevo pensato?), poi mi manda una mail lunghissima con parole come
“Dipartimento ”, “Tempistica”, “Contatta ”, “Problemi
con l’ordine”.
Nel
frattempo sullo schermo appare l’oggetto che avevo ordinato, e
scopro di desiderarlo ancora, e anche se passo parte della giornata a
leggere e a rispondere al telefono e alle mail sono a un passo dal
cliccare su “Compralo di nuovo”.
Così
ci riduce il consumismo, servi scemi e devoti della merce adorata,
che arriva, o giace.
Questo
è lo Psico-diario di una consegna mancata di
Daniela
Ranieri
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Striscia domenicale dello Stefano